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Kobanê, città delle donne (testimonianza)

Dal sito di RETE JIN un interessante contributo dalla delegazione italiana in Rojava: sei donne provenienti da diversi parti d’Italia legate dalla solidarietà con la rivoluzione delle donne nella Federazione Democratica della Siria del Nord e dell’Est.

Anche due nostre attiviste, Letizia e Adele, si trovano a Raqqa, Siria: qui un loro video-commento

Kobanê, città delle donne (testimonianza)

Dalla liberazione da Daesh (ISIS) avvenuta il 27 gennaio ad oggi, Kobanê è stata ricostruita dalle fondamenta, letteralmente. Cinque mesi di combattimenti tra le Unità di Difesa Popolare/delle Donne (YPG/YPJ) e l’esercito di Daesh avevano ridotto la città in macerie. Oggi ne rimane testimonianza in quello che è il “Museo”, una parte di Kobanê lasciata così com’era, volutamente non ricostruita per mantenere viva la memoria di circa 2500 martiri e presa in gestione dagli stessi combattenti che organizzano delle visite guidate per i luoghi della resistenza. “La nostra forza in battaglia” ci racconta heval Rohat, uno dei responsabili del Museo e delle YPG di Kobanê “è l’hevalti [l’essere compagn@] e il lottare per un’idea, un’identità comune. Mentre combattevo sapevo che laggiù, proprio dietro di noi, c’erano i compagni che cucinavano, che si prendevano cura di noi e dei feriti. Questo ci rende diversi e più forti di Daesh. E il ruolo delle compagne delle YPJ è fondamentale in tutto questo. Combattere con le donne è molto diverso. Tengono su il morale, quando c’è disperazione intonano un canto, quando un compagno sente che non ce la fa più loro gli danno forza”.

Heval Rohat ci racconta questo mentre passeggiamo per interi quartieri bombardati e oggi intitolati con i nomi dei martiri caduti proprio in quelle vie. Intorno a noi, a pochi isolati, ricomincia la città di Kobanê ricostruita, rinata, con i suoi negozi e i suoi abitanti tornati dopo la liberazione.

Il vento bollente e il sole feroce dell’estate ci accolgono in una città polverosa, dalle case basse con colori chiari. In giro s’incontrano hevalen armati, donne e uomini, delle YPG e YPJ o delle forze di autodifesa civili che non hanno niente degli eserciti di Stato. Sono guerrigliere e guerriglieri. Sorridono, salutano tutt@, e sono rispettati come fratelli e sorelle. È sorprendente sentire anche sulla nostra pelle una così chiara simpatia per delle divise.

Kobanê è una città che prima della guerra contava circa 40000 abitanti. Come ci racconta heval Felek, prima della rivoluzione molti si erano trasferiti ad Aleppo o Damasco, ma con lo scoppio della guerra in Siria cominciata nel 2011, molti vi hanno fatto ritorno perché Kobanê era una città sicura che ha ospitato tantissimi sfollati interni da tutte le parti della Siria. All’arrivo di Daesh, però, come racconta heval Rohat, i combattenti hanno deciso, per la sicurezza della popolazione e per poter attuare dei metodi di difesa e attacco all’interno della città, che tutti gli abitanti venissero sfollati.

Soltanto in seguito alla riconquista della città il 75% della popolazione vi ha fatto ritorno, alcuni ristabilendosi nella parte distrutta, altri in case ristrutturate nella parte alta della città. Chi ha avuto l’abitazione totalmente distrutta e non ha avuto possibilità di ricostruirla ha deciso di non tornare.

Ogni famiglia ha infatti almeno un membro che vive all’estero. Kobanê è una città a maggioranza curda fortemente arabizzata: la lingua ufficiale è l’arabo, mentre il curdo ha subito un forte processo di assimilazione. Grazie allo sforzo di tutta la popolazione, determinata a tornare nelle proprie case nonostante la distruzione della guerra, la città ora è di nuovo in funzione, con elettricità e acqua corrente accessibili a tutt@.

Quello che emerge dalle parole di heval Felek è l’amore della popolazione per questa città e la volontà di rimanere qui. La speranza è che Kobanê e la Confederazione della Siria del Nord e dell’Est vengano riconosciute a livello internazionale.

Le istituzioni delle donne

Protagoniste della rivoluzione della Confederazione della Siria del Nord e dell’Est, e della ricostruzione della città, sono le donne. Il movimento confederale delle donne in Rojava, originariamente chiamato Yekitiya Star, nasce nel 2005. Questa organizzazione lavorava in segreto nelle città e nei villaggi del Nord della Siria con il fine di organizzare le donne e accrescere la loro coscienza politica attraverso lo sviluppo di attività democratiche, dal basso. Obiettivo principale era quello di smascherare i metodi oppressivi utilizzati contro le donne e di sradicare la “mentalità del maschio dominante” verso la creazione di una società libera.

Durante gli anni del regime Assad l’attività dell’Yekitiya Star è stata difficile e pericolosa; molte donne sono state arrestate e tante di loro sono sparite. Quando è iniziata la rivoluzione democratica in Rojava il 19 luglio 2012 il movimento delle donne ha giocato un ruolo di fondamentale importanza. Esso è stato capace di lavorare nella società, diventando uno dei più importanti ed essenziali movimenti politici della regione crescendo in maniera esponenziale sino ad includere le donne di tutte le etnie e religioni presenti nell’area. Lo Yekitiya Star cambia nome nel 2016 in Kongreya Star diventando un ombrello di tutte le organizzazioni e istituzioni delle donne. Il Kongreya Star è una confederazione di tutti i gruppi di donne del Rojava che si organizza secondo i principi del paradigma ecologico-democratico e sulla libertà delle donne. Obiettivo è quello di sviluppare un Rojava libero, una Siria e un Medio Oriente democratici, promuovendo i diritti delle donne e il concetto di nazione democratica. Il Kongreya Star è presente in tutte le principali città della Confederazione della Siria del Nord e dell’Est e si suddivide in diversi comitati che si occupano di educazione, economia, diplomazia, autodifesa, giustizia civile, ecc.

A Kobanê siamo state presso la sede del Kongreya Star e abbiamo incontrato le donne che lavorano lì. Heval Nasrin, una di loro, ci ha spiegato che ogni 3 mesi le responsabili delle varie organizzazioni che stanno sotto l’ombrello del Kongreya Star (Casa delle Donne o Mala Jin, centro di Jineoloji, Fondazione delle donne o Weqfa Jinên, Fondazione Sara o Rêxistina Sara a dijî Tûndiya ser Jinê, Consiglio economico delle donne, istituzione responsabile delle komine, accademia, ecc) si riuniscono in assemblea e discutono i report di ciascun gruppo in cui vengono descritte le attività portate avanti e le criticità attraversate nell’ultimo periodo. Obiettivo dell’assemblea generale è riflettere assieme sul lavoro svolto, sugli errori che sono stati commessi e su come risolvere collettivamente i problemi.

La responsabile di ogni comitato viene scelta in maniera consensuale dalle persone che partecipano all’istituzione su proposta delle responsabili generali del Kongreya Star. Come ci dice heval Nasrin, il consenso è reso possibile dal fatto che non esiste competizione tra le donne che fanno parte delle istituzioni; tra loro si sentono come una grande famiglia. Il ruolo di responsabile ha una durata di due anni al termine dei quali si valuta il lavoro svolto dalla compagna attraverso il metodo della critica e autocritica. In seguito, potrà rimanere responsabile, essere assegnata ad un’altra istituzione o partecipare ad una formazione politica e così crescere sia a livello personale che professionale.

Ascoltando le donne che lavorano nelle varie istituzioni del Kongreya Star, capiamo che si tratta di un sistema basato sul consenso, la rotazione delle cariche e la condivisione profonda di principi etici e politici che regolano la vita in comune e che vengono discussi, elaborati e trasmessi all’interno delle educazioni politiche, parte fondamentale e imprescindibile del sistema confederale. Inoltre, il lavoro di un’istituzione – che sia il Comitato di Jineoloji, una cooperativa economica o la Casa delle Donne – non dev’essere mai pensato in maniera isolata. Insieme, le varie organizzazioni costituisco una rete interdipendente e fortemente articolata, in cui ciascun gruppo supporta ed è supportato dagli altri e in cui il lavoro è pensato collettivamente e a partire dalle necessità di ciascuno, secondo le idee di comunalismo e di confederazione.

Per capire meglio il funzionamento e la ricchezza delle pratiche d’organizzazione delle donne a Kobanê abbiamo visitato alcune strutture che lavorano in diversi ambiti, quali la prevenzione e il supporto delle donne vittime di violenza (Fondazione Sara), la creazione della scienza delle donne (Centro di Jineoloji), e la promozione dell’educazione popolare, sia delle donne che degli uomini (Accademia Şehîd Şilan). Senza pretese esaustive, consapevoli che si tratta di un processo in corso e in continua trasformazione, riportiamo qui sotto ciò che è emerso dalle discussioni con le donne che ci hanno accolto e che hanno condiviso con noi racconti e riflessioni.

Fondazione Sara (Rêxistina Sara a dijî Tûndiya ser Jinê)

La Fondazione Sara apre a Qamişlo nel 2013 e successivamente a Kobanê e Afrin. Nasce dalla rivoluzione, dal movimento delle donne e dai diversi momenti di confronto in cui era emersa la necessità di cominciare un lavoro ufficiale contro la violenza sulle donne. La Fondazione è intitolata a Sara: un nome che accomuna donne arabe, curde, musulmane e cristiane e in cui le donne di tutte le etnie e religioni presenti nell’area vi si possono identificare.

Nel 2015, dopo la guerra, il lavoro principale delle donne della Fondazione è stato quello di recarsi casa per casa con l’obiettivo di presentarsi e conoscere le altre donne. Inizialmente ad occuparsi della Fondazione erano solo due persone, ma grazie al costante lavoro di base e in seguito al rientro delle famiglie dopo la liberazione della città, nacquero i primi comitati di Sara a partire dal 2016. Questi si occupavano di educazione, archiviazione del materiale, violenza psicologica, media, diplomazia, ecc.

Oggi la Fondazione lavora per la prevenzione e il supporto delle donne vittime di violenza, non solo fisica ma anche psicologica. L’articolazione con le altre istituzioni è fondamentale: il Kongreya Star può inviare alla Fondazione Sara le donne che hanno bisogno di aiuto. Oppure, mentre Sara si occupa nello specifico del problema della violenza sulle donne, la Mala Jin (Casa delle donne) lavora su tutte le loro necessità e i problemi. Entrambe collaborano con il tribunale autonomo delle donne, secondo una procedura per cui Sara manda i report dei casi da seguire e le donne della Mala Jin seguono il processo.

Ci racconta la responsabile di Sara, che sono ancora poche le donne che si recano alla Fondazione per denunciare la violenza subita. Il sentimento di vergogna nel parlare di violenza è molto forte, così com’è grande la paura di subire conseguenze all’interno della famiglia o di non ricevere l’aiuto necessario. Tuttavia, la rivoluzione sta portando con sé una generale crescita di consapevolezza e dal 2017, dice la responsabile, le donne iniziano ad avvicinarsi alla Fondazione in maniera più regolare: stanno prendendo forza e sentono di poter cambiare la loro condizione.

“Quando una donna arriva con un problema, cerchiamo di farle capire che è un suo diritto autodifendersi, secondo le nuove leggi. Noi le aiutiamo quanto più possibile, ma cerchiamo anche di fargli capire che devono imparare a autodifendersi, senza aspettare la difesa di nessuna istituzione”.

Per i casi di violenze gravi la Fondazione Sara di Kobanê ha aperto la “mala parastina jinê” (la casa di autodifesa delle donne, simile a quelle che in Italia conosciamo come case rifugio). Qui le donne vengono accolte in segreto, protette dall’eventuale persecuzione o violenza dell’aggressore. Non si tratta però solo di spazi di tutela ma soprattutto di costruzione di autonomia e di forza collettiva, secondo il concetto ampio di autodifesa usato dal movimento delle donne curde. Quello che le donne di Sara hanno creato all’interno di queste case, è un sistema di autorganizzazione, in cui anche i figli possono abitare e seguire la scuola che da poco è stata inserita all’interno della struttura. Rispetto all’affidamento del bambino è il tribunale delle donne che decide ascoltando prima di tutto la volontà della vittima.

La Fondazione Sara attualmente non si occupa di tematiche quali aborto e prostituzione, entrambe vietate e non accettate dalla cultura locale e dalla religione musulmana, soprattutto perché le necessità principali sono quelle di scardinare la pratica del matrimonio in giovane età e quella della poligamia, tuttora largamente praticate nonostante il divieto proclamato dalle nuove leggi della Confederazione autonoma della Siria del Nord e dell’Est. Tuttavia alle donne viene riconosciuto il diritto di abortire nel caso in cui non siano in grado di badare al figlio/a. Questo diritto è, però, spesso ostacolato dai medici che si oppongono alla pratica dell’aborto. La Fondazione si dichiara totalmente contraria alla pratica dello stupro e del matrimonio riparatore che veniva spesso utilizzato sotto il regime per coprire la violenza sulle donne. Una pratica vietata dall’amministrazione autonoma.

Dal 16 marzo al 25 novembre di questo anno, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la Fondazione Sara sta portando avanti una campagna dallo slogan “Jin Jiyane Jiyanê Nekuje”(La donna è vita, non ucciderla). L’obiettivo della campagna è quello di educare le donne e renderle consapevoli dei propri diritti attraverso dei seminari mensili in cui si affrontano vari argomenti, tra cui la violenza, aspetti legati al matrimonio e alla gestione della famiglia, matrimoni precoci al di sotto dei 18 anni, aspetti legati al parto, tra cui la pratica del cesareo – che qui viene utilizzato da tutte le donne in sostituzione al parto naturale, lasciando delle conseguenze fisiche rilevanti. I seminari non sono solo per le donne ma vi partecipano anche gli uomini. La campagna sta ottenendo dei buoni risultati dati dalla collaborazione di tutte le istituzioni tra cui Desteya Jin, Waqfa Jin, Kongreya Star e varie istituzioni della società civile.

Un altro progetto che la Fondazione sta portando avanti è “Women for change”, un progetto che ha come obiettivo l’educazione delle donne al fine di cambiarne la mentalità. Esso si rivolge anche alle prostitute al fine di far loro capire che esistono altre possibilità per avere un’indipendenza economica,, dei diritti di base che devono essere rispettati e per i quali le stesse donne devono lottare. L’obiettivo del progetto è quello di cambiare le donne e il modo in cui sono rappresentate nella società.

Centro di Jineoloji

Al centro di Jineoloji abbiamo avuto modo di parlare con Heval Dirok che ci racconta che il comitato di Jineoloji di Kobanê esiste da due anni ed è composto da 6 persone.

Anche in questo caso il lavoro di articolazione con le altre strutture delle donne è fondamentale: dalle komine (comuni di base in cui si auto-organizza la società per quartieri e villaggi), al Kongreya Star, all’Accademia Şehîd Şilan.

L’obiettivo generale, ci spiega heval Dirok, è fare scienza (loji) delle donne (jin); creare, cioè, una scienza sociale che guardi il mondo con occhi di donna lavorando a stretto contatto con la società e coinvolgendo tutte le donne senza distinzione di lingua, etnia, cultura e background sociali ed economici. “È importante non chiudersi nel Centro” dice Dirok “ma stare nella società e fare di questa scienza una scienza della società”. Il loro lavoro consiste nello studio dei saperi e della storia nascosti delle donne, attraverso una ricerca che si basa principalmente su tematiche quali società neolitica, medicina naturale, situazione delle donne in un contesto attraversato insieme da una guerra e da una rivoluzione ancora in corso.

Lo strumento principale per questo radicale cambio di mentalità e per porre fine al sessismo sociale è quello delle formazioni. Attraverso l’avvio di un sistema di educazione costante si punta alla formazione non solo delle donne, ma anche degli uomini a partire da coloro che ricoprono cariche politiche o di responsabilità, come i co-presidenti delle komine. Queste educazioni popolari avvengono presso l’Accademia e sono rivolte a circa 30/40 persone. Normalmente si aprono con una serie di domande e solo alla fine vengono dati una serie di input. Durante tutta la formazione si discute molto, si vedono film e proiezioni su temi come la mitologia o il ruolo e le resistenze delle donne nella storia.

Altro metodo è quello del questionario, composto da domande aperte che permettono alle donne di parlare di sé e far emergere le proprie esperienze e conoscenze. Si tratta di circa 4 o 5 domande che possono riguardare la memoria sociale e resistente delle donne, partendo dalla considerazione che la memoria della società, e in particolare delle donne, è molto ricca e ancora non scritta. Le donne sono portatrici di un’infinita ricchezza di saperi, come per esempio quello della medicina naturale, e di una densa memoria storica di resistenza rintracciabile nella mitologia e nelle lotte del passato. In tutte le donne con cui lavorano, spiega Dirok, siano esse arabe o curde, si conserva questa memoria ed è da questa che bisogna ripartire per costruire una nuova sociologia della libertà. Altre domande possono riguardare l’influenza del sistema nella società o come la rivoluzione influenzi la vita delle donne o quali speranze e nuove visioni sia capace di generare.

Infine, grazie a questo lavoro di ricerca viva all’interno della società e all’accumulazione dei saperi resistenti delle donne, Jineoloji diventa anche uno strumento per trovare soluzioni alternative ai problemi della vita e dell’organizzazione. Infatti, come ci racconta ancora Dirok, il comitato di Jineoloji spesso si reca presso le komine delle donne per parlare e discutere con loro e capire insieme i problemi e le soluzioni per la società.

Il lavoro di ricerca di questo comitato è di fondamentale importanza, perché quando si leggono i libri di storia sembra che le donne nella società non siano mai esistite, ma attraverso queste ricerche si scopre qualcosa di diverso: la storia è dentro le donne, gli appartiene. La resistenza delle donne pervade tutta la società.

Accademia delle donne Şehîd Şilan

Şehîd Şilan è una combattente di Kobanê, che compare nella foto accanto a Öcalan all’ingresso dell’Accademia. Si era unita al movimento negli anni ’90 ed è caduta martire nel 2003, uccisa per mano dei soldati turchi mentre cercava di oltrepassare la frontiera con la Turchia per unirsi al PYD, Partito dell’Unione Democratica o Partiya Yekîtiya Demokratik. A lei è dedicata l’Accademia delle donne di Kobanê, che è stata inaugurata il 17 giugno del 2018 e di cui ci parla heval Felek, del comitato dell’educazione, mentre prendiamo il çai a casa sua.

L’Accademia è un grande edificio che si trova dentro la foresta di Kobanê, un parco di pini nel centro della città. Qui le donne tengono educazioni per le donne ma anche per gli uomini, secondo il principio per cui le donne possono essere formate solo da donne, mentre l’educazione agli uomini può essere impartita da una donna, da una donna e un uomo, o solo da un uomo. E proprio nei giorni in cui siamo in visita noi è in corso la prima formazione maschile della durata di quindici giorni, a cui partecipano circa venti uomini che appartengono al movimento e che ricoprono cariche di co-presidenza nelle varie istituzioni presenti sul territorio della regione di Kobanê. Quando entriamo nella sala in cui è in corso la formazione fa un certo effetto vedere i quaderni degli appunti di tutti quei compagni e sulla lavagna l’unica parola che capiamo (perché non in arabo): Jineoloji! Ci raccontano che proprio in quei giorni le donne del comitato di Jineoloji stavano dando lezione sulla scienza delle donne. Tra gli altri temi delle lezioni c’è la storia delle donne, il sistema della co-presidenza, il sessismo, e altri. In generale si tratta di una formazione identica a quella che viene impartita anche alle donne.

Come ci spiega Felek, l’obiettivo è quello di “cambiare ciò a cui noi ci riferiamo non con l’espressione patriarcato ma mentalità oppressiva e dello Stato”. In altre parole, è necessario costruire, tra uomini e donne, l’hev jian azad, che possiamo tradurre con “vita libera insieme”. Una società in cui le relazioni non siano basate sul dominio di un genere sull’altro, ma sulla piena e libera espressione di ciascun individuo e sul riconoscimento dei valori delle donne. Per ciò, racconta ancora heval Felek, è importante che gli uomini si formino e si trasformino così da accettare al loro fianco donne non succubi, bensì forti e autodeterminate.

Le chiediamo poi come funzionano le formazioni rivolte alle donne: “è difficile per le donne venire alle formazioni perché devono badare ai figli, alla casa, devono lavorare, e questo è un nostro problema da risolvere. Se lasciano i figli a casa è perché stanno con altre donne della famiglia, non con gli uomini dato che non sanno prendersene cura. Per questo stiamo progettando uno spazio dove i bambini possano stare durante le formazioni, insieme ad altre donne.” Alla nostra domanda risponde: “sì, è vero, forse alle formazioni dovremmo insegnare agli uomini a fare lavoro di cura, è importante che anche loro lo sappiano fare!”.

Ci racconta che all’Accademia stanno costruendo una piscina dove poter fare sport insieme e intervallare i momenti di formazione con la cura del corpo. Alla base di questo progetto c’è l’idea di decostruire la cultura della “vergogna” che pesa particolarmente sulle donne. Per esempio, che la donna faccia uno sport è considerato una vergogna. “Dobbiamo lavorare e rompere questi stigmi che pesano molto sulla vita delle donne di questa società. Le donne non camminano per strada da sole, perché anche questa è considerata una vergogna. Bisognerebbe fare dei progetti per cui possano andare in bicicletta per la città. Lo proporrò alle compagne di Jineoloji”.

La condizione delle donne di Kobanê, dopo la guerra, è molto difficile, ci spiega Felek. Molte sono rimaste sole, e molte si trovano in uno stato di estrema povertà, senza più niente. Il lavoro che fa l’Accademia, insieme alle altre istituzioni del Kongreya Star, è dar loro supporto, trovar loro un lavoro, ricostruire insieme un senso da dare alla propria vita e, soprattutto, renderle consapevoli dei nuovi diritti stabiliti dalle conquiste della rivoluzione. Si tratta di regole che esistono ma che ancora non vengono del tutto messe in pratica.

Per esempio se una coppia si separa, la casa deve rimanere alla donna e ai figli. Oppure, per legge, la poligamia è vietata, e quindi un uomo non può sposare più di una donna. Solo nel caso in cui la donna sia sterile l’uomo può sposarne un’altra, ma solo con il consenso della prima moglie ed eventualmente possono anche decidere di rimanere insieme senza fare figli o separarsi. O ancora, se prima con il matrimonio l’uomo “comprava” la donna, pagando una somma in denaro e rendendo il matrimonio una transazione economica per cui la donna diventa proprietà del marito, ora l’intenzione è quella di eliminare questa pratica.

Tuttavia, ci spiega ancora Felek, insieme alla legge è importante l’educazione della popolazione per cambiare la mentalità. “La nostra società per troppo tempo è stata lontana dalla sua identità. Ha perso la sua storia. C’era solo violenza. Lo Stato proibiva mille cose senza spiegare il motivo, e nessuno domandava il perché. Ora la gente osserva le cose e si fa delle domande e così stabilisce da sé se qualcosa è giusto o sbagliato e cerca di cambiarla. La guerra e la violenza colpiscono uomini e donne, ma la cosa più dura è cambiare la mentalità”.

Alla domanda “qual è il primo passo per una vita libera e rivoluzionaria?” heval Felek sostiene che si tratta di una domanda molto difficile perché purtroppo il Kurdistan è ancora diviso in quattro Stati nazione, in molte aree è ancora vietato l’utilizzo della lingua curda e la popolazione curda non è riconosciuta dal governo nazionale. Il fatto, inoltre, che molti compagni siano in prigione e tanti a combattere sulle montagne, non consente il raggiungimento di una vita libera e felice. Ciò che però è importante è il non arrendersi, continuare a combattere al fine di raggiungere un obiettivo collettivo. La resistenza dei compagni, come quella di Leyla Güven, è fonte di speranza. “Quando le donne si uniscono tra loro possono raggiungere la libertà. È una lotta difficile, ma Jineoloji, il sapere delle donne, ci darà le idee e i metodi per poterlo fare!”.

Delegazione italiana Rete Jin

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