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PLAYING THE GAME Serbia, una trappola alle porte d’ Europa


Siamo stati in viaggio verso la Serbia per reagire all’indignazione suscitata dalle immagini dei ragazzi bloccati nel gelo di Belgrado come durante la prima guerra mondiale. Davanti a tale disumanità, chi supporta ogni giorno i migranti nella conquista dei diritti negati non poteva rimanere a guardare. La rotta balcanica è stata chiusa quasi un anno fa, ma quale è il costo umano di questa decisione? Lo scopriamo nella zona di Subotica, nel nord della Serbia, oggi meta di centinaia di persone che ancora tentano di entrare in Europa attraverso l’Ungheria. Un’ impresa quasi impossibile, da quando Orban ha dichiarato guerra ai migranti e attraverso la costruzione di un imponente muro limita il passaggio legale del confine a 10 persone al giorno, violando così il principio di non respingimento della Convenzione di Ginevra sull’asilo. Coloro che si rassegnano all’attesa eterna del proprio turno devono sostare nei centri governativi dove c’è chi aspetta da oltre sette mesi; ma è una prospettiva incerta e limitata a un numero ristretto di persone, e così vicino alla frontiera centinaia di uomini afghani e pakistani si rifugiano all’interno di costruzioni abbandonate, senza porte o finestre, dove vivono tra fango, rifiuti e macerie. E’ il caso della Stara Cinglana, vecchia fabbrica di mattoni distante poche centinaia di metri da un campo governativo, nella quale trovano riparo circa 120 persone che ogni notte in piccoli gruppi tentano di oltrepassare il confine.

L’accesso a uno dei sedici campi governativi presenti in Serbia da parte dei migranti non dipende dalle esigenze o dalle necessità di ognuno, ma dalla loro provenienza. Il sistema normativo serbo distingue nettamente e rigidamente due categorie di migranti: i profughi provenienti prevalentemente dalla Siria, e i cosiddetti migranti economici provenienti dal nord Africa, dal Pakistan, dall’Afghanistan e dal Bangladesh. A causa di questa distinzione il diritto di asilo non viene garantito come tutela soggettiva, finalizzata a dare riparo a chiunque si ritrovi in situazioni di pericolo o difficoltà nel proprio paese d’origine, e rappresenta l’unico modo di accedere ai servizi primari per la sopravvivenza come il cibo, un posto caldo dove risiedere e il supporto sanitario. Nonostante siano pochissime le persone che vogliono rimanere il Serbia la richiesta di protezione internazionale è diventato quindi l’unico strumento possibile per non morire di fame, di freddo o di confine.

La procedura di asilo disciplinata nella legge Repubblica di Serbia del 2008 è soggetta a delle lacune applicative tali da renderla inefficace e non rispettata, per rendersene conto basta osservare i numeri: nel 2016 secondo il ministero degli interni 12.821 persone hanno registrato la loro intenzione di chiedere asilo in Serbia, ma vista la mancanza di posti all’interno dei campi di accoglienza (soltanto dentro ai quali è possibile ufficializzare la propria domanda e avere diritto ad una permanenza legale sul territorio) solo in 574 hanno presentato domanda ufficiale di asilo. Le autorità serbe dall’inizio del 2016 hanno concesso lo status di rifugiato soltanto a 19 persone e la protezione sussidiaria a 23. Inoltre, nei fatti, autodenunciare la propria presenza sul territorio agli uffici di polizia consente in rari casi di accedere ad un campo governativo in attesa dello status, ma al contrario nella gran parte dei casi ha come conseguenza lo spostamento nei campi chiusi presenti nei pressi di Preševo, nel sud della Serbia, dai quali avvengono frequenti deportazioni in Macedonia.

Usman ha diciassette anni, è pakistano, ed è in Serbia da due mesi. Anche se minorenne, non è stato accettato nei campi del Governo a causa della sua provenienza. Per questo si nasconde nel gelo e nel fango della vecchia fabbrica di mattoni, con la speranza di attraversare di nascosto il confine e con il terrore di essere deportato. Per 8 volte ha provato ad entrare in Europa: ha tagliato le prime reti, ma la Polizia l’ha intercettato e fermato, denudandolo completamente. Un’ usanza degli agenti ungheresi, che abbandonano i migranti nudi nella neve per ore e poi li disperdono lontano dal confine. E’ un trattamento spietato, ma non quanto quello di altri Stati: le mani e la schiena di questi ragazzi sono massacrate dalle martellate e manganellate della polizia bulgara e croata. Al cibo che consegniamo loro affidiamo il nostro messaggio di complicità alla lotta contro l’ingiustizia che li vuole imprigionare in un destino scelto da altri. Ma anche questo gesto di solidarietà è illegale, perché da alcuni mesi la Serbia ha vietato ogni supporto ai migranti, condannati ad una inospitalità ed isolamento che ha il volto della morte. E la morte purtroppo arriva per molti di loro. A Belgrado l’emblema delle contraddizioni in seno al paese è rappresentato dalla Long House, il più grande campo non governativo presente in Serbia, dove attualmente vi si riparano dalle 900 alle 1200 persone. Nonostante le condizioni molto simili alla fabbrica di Subotica è la soluzione migliore per chi arriva a Belgrado. Questo è il centro di quello che i giovani migranti bloccati in Serbia chiamano “The Game”: il gioco inizia in questo vecchio deposito ferroviario dove recuperano le informazioni e gli strumenti necessari, si spostano sul confine meno sorvegliato, strisciano nella Jungle ed attendono ore nella neve aspettando il momento migliore in cui tagliare le reti. A questo punto o riescono a superare i cani e la polizia di frontiera e correre verso il prossimo confine oppure vengono fermati. In questo gioco si vince se riescono ad entrare in Europa, si perde se vengono fermati e riportati al punto di partenza, o se, come drammaticmente succede, muoiono.

La dinamica grottesca del gioco non coinvolge soltanto i migranti, ma anche tutte quelle organizzazioni solidali ed i singoli che si impegnano quotidianamente a prestare aiuto disobbedendo alle discriminazioni imposte dai governi (non solo quello serbo, ma anche rispetto a ciò che accade in Francia o a Ventimiglia) e rischiando la propria libertà. E’ un gioco che impegna i trafficanti di esseri umani che lucrano sui flussi irregolari ed anche le autorità e i governi che edificano il proprio mandato politico.

L’Europa reputa un successo la chiusura della tratta balcanica e il conseguente blocco del flusso migratorio, non considerando il prezzo che tuttora stanno pagando migliaia di persone alienate dalla sofferenza ed esauste dalla sopravvivenza. Sono decine i migranti morti negli ultimi due mesi alle porte d’Europa, ma nonostante l’evidenza delle conseguenze atroci causate delle scelte compiute consapevolmente dalla stessa Europa, è in corso la preparazione della chiusura di un’altra rotta, quella mediterranea.

Il gioco della frontiera si articola attraverso tre direttrici dell’Unione Europea: ridurre i canali di tutela previsti dalle normative internazionali come la protezione internazionale, introducendo arbitrarie discriminanti di selezione aprioristiche che di fatto contraddicono il diritto internazionale; estendere la gestione dei flussi oltre i confini territoriali dei paesi membri tramite accordi singolari con altri paesi (basti pensare all’accordo UE-Turchia e ai prossimi in programma). Infine incidere sui governi nazionali attraverso la gestione della macchina dell’accoglienza, che a seconda delle necessità contingenti degli stati può determinare un approccio securitario al fenomeno.

In Italia questa deriva risulta evidente nella proposta di decreto del ministro dell’interno Minniti, nella quale, attraverso l’istituzione di nuovi centri di detenzione e rimpatrio per migranti, l’abolizione del secondo grado di giudizio di fronte al diniego della richiesta di asilo e la previsione di daspi urbani in mano ai sindaci delle città, si utilizza il pretesto della sicurezza per rinchiudere ed allontanare migranti considerati irregolari e punire le iniziative di supporto e solidarietà nei loro confronti.

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