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Soccorso ai naufraghi principio occidentale

da la Repubblica Palermo, di Aldo Schiavello (direttore del dipartimento di Giurisprudenza di Palermo).

Come sanno bene i lettori di questo giornale, da qualche giorno Mare Jonio, una nave battente bandiera italiana, naviga per il Mediterraneo al fine di monitorare le traversate di barche e gommoni che trasportano migranti verso l’Europa e prestare loro soccorso in caso di necessità. Questo progetto nasce dalla società civile e vede coinvolte, non a caso, molte realtà siciliane tra cui, in prima fila, l’impresa sociale Moltivolti.

Diverse sono le ragioni per cui Mediterranea – questo è il nome della piattaforma sociale che ha realizzato il progetto – merita di essere sostenuta o, almeno, seguita con interesse. Tra queste, inserirei l’attenzione verso una “terapia del linguaggio”, per dir così, tendente a “distinguere i piani” del discorso corrente sui migranti, nell’evitare di fare “di tutta l’erba un fascio”: uno degli esercizi tra i meno praticati nell’odierno dibattito pubblico. La distinzione dei piani mi sembra infatti uno dei punti fermi del progetto: l’obiettivo di Mediterranea è quello di verificare il rispetto del diritto e dei diritti da parte dei governi e delle istituzioni coinvolte nelle operazioni di salvataggio di vite umane nel mar Mediterraneo. Si tratta di una operazione politica? Certo, in un senso di politica, molto preciso e circoscritto, che impone il rispetto di quei valori e principi che, negli stati costituzionali contemporanei, sono (o dovrebbero essere) presupposti da tutte le ideologie politiche, le convinzioni filosofiche e i credo religiosi.

Vorrei fare un esempio preciso. Il 5 ottobre scorso, Mare Jonio segnala alle autorità italiane un gommone in difficoltà a 78 miglia dalla Libia, con a bordo tra le 20 e le 40 persone. Le autorità italiane rispondono che il coordinamento dell’operazione di salvataggio era già stato assunto dalla Guardia costiera libica la quale con ogni probabilità avrebbe poi ricondotto in Libia le persone a bordo.

Come è noto, in Libia non c’è, al momento, un governo stabile, i migranti africani che tentano di raggiungere l’Europa sono chiusi in campi-lager dove spesso sono torturati e venduti a trafficanti di esseri umani; in generale, come sancito dalla sentenza Hirsi della Corte europea dei diritti dell’uomo, la Libia non può essere considerata un porto sicuro in quanto non garantisce ai rifugiati e ai richiedenti asilo un trattamento conforme agli standard internazionali. Date queste premesse, sorge spontanea una domanda: quale dovrebbe essere il comportamento di uno stato che rispetta il diritto e ha a cuore i diritti umani e la dignità delle persone? La risposta sembra ovvia: fare tutto il possibile affinché i migranti – siano essi richiedenti asilo o migranti economici – non cadano nelle mani delle autorità libiche.

Mi piacerebbe davvero che su questo si fosse tutti d’accordo, per la semplice ragione che in gioco ci sono le fondamenta della nostra cultura giuridica. Poi, ci si può dividere su tutto il resto, ma evitando di fare di tutta l’erba un fascio. Si può pensare che il flusso migratorio verso l’Europa sia una risorsa o, al contrario, una minaccia, che i migranti fanno i lavori che gli italiani si rifiutano di fare o, viceversa, che rubano il lavoro agli italiani, che il welfare debba sostenere tutti coloro che sono in difficoltà ovvero tutelare prima i cittadini, e si potrebbe continuare all’infinito.

Se però non siamo d’accordo che i naufraghi debbano essere salvati e portati in un porto sicuro, allora stiamo abiurando il minimo etico che contraddistingue gli stati costituzionali contemporanei e, peraltro, spesso lo facciamo nella pretesa di difendere i valori dell’occidente (ammesso che li si possa identificare con facilità).

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