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Il pensiero educativo ai tempi del decreto Minniti-Orlando


Non ho mai creduto che gli uomini siano buoni. Ma meritano di essere tutti uguali. (Jean Claude Izzo)

Alla fine l’hanno approvato, si entra nell’era del decreto Minniti. Sperimentalismo legislativo a ruota libera: il primo progetto di legge varato, non come risposta a un bisogno reale, ma per contrastare una percezione diffusa, quella d’insicurezza, alimentata strumentalmente ad arte dai soliti noti. S’inaugura ufficialmente la stagione della giurisprudenza etnica: i migranti retrocedono di un altro livello, da cittadini di seconda serie a cittadini di terza, si riaprono i CIE, seppur in versione edulcorata e con altro nome e in sede di richiesta dello status di rifugiato, viene loro tolto addirittura un grado di giudizio. I più meritevoli, nell’attesa che la loro domanda venga o meno accolta, godranno del privilegio di svolgere dei lavori, rigorosamente dietro nessun compenso, in ambiti utili alla collettività. In pratica, per la gran gioia dei lavoratori (particolarmente del sociale) e delle organizzazioni sindacali da tempo in trincea per difendere ciò che resta del diritto al lavoro, si da forma giuridica allo sfruttamento, con l’inevitabile acuirsi, e se ne sentiva proprio il bisogno, della guerra tra poveri già piuttosto accesa nel paese. A chi invece recherà danno o disturbo al decoro urbano, sarà inflitto un DASPO cittadino: l’espulsione dal territorio. Se tutto questo sia o no costituzionale, non spetta a un operatore sociale dirlo, chi è pratico di materia giuridica lo sta già facendo con autorevolezza e competenze superiori. Quello che invece balza subito agli occhi di chi per mestiere si prende cura di queste fasce di cittadini, è l’arretramento sensibile dell’approccio inclusivo contenuto in queste misure. In sostanza, ci si muove nei confronti di chi ha fatto una rapina e di chi è costretto a vivere in strada o di chi sta scappando da guerra e fame, allo stesso modo. Viene azzerata la differenza di approccio alle due condizioni, non più l’una punitiva e l’altra inclusiva, ma entrambe dentro la stessa logica repressiva. Cambia solo l’entità della pena comminata. Un orrore metodologico prima ancora che etico. La ricaduta sulla quotidianità del nostro lavoro è immediata. Meno prevenzione e più repressione: l’indebolimento dello stato sociale è strettamente connesso con il rafforzamento dello stato penale, per usare le parole del sociologo francese Loïc Wacquant. Intendiamoci, il processo di ridefinizione in senso restrittivo dei lavori di cura e d’inclusione non comincia certo con il decreto Minniti e il sospetto che ciò faccia parte di un disegno più ampio di riorganizzazione sociale, è alto. Infatti, se più indizi fanno una prova, siamo già ben oltre il campo dei semplici sospetti. Già da qualche tempo assistiamo all’intensificazione degli aspetti clinici e farmacologici nei percorsi riabilitativi in ambito sanitario, alla reiterazione, in gare d’appalto su vari servizi, di bandi che riducono drasticamente, laddove non lo eliminano del tutto, il monte ore dedicato a progettazione e verifica e ora il decreto Minniti, con l’intenzione neppure tanto velata di trasformare gli operatori dell’accoglienza in dei semplici notificatori di decreti espulsivi e altra roba simile. Eppure, in quella che rimane la norma più recente in materia di identificazione e definizione, se non proprio del profilo dell’operatore sociale in senso più ampio, almeno di quello dell’educatore (DM n. 520/98), si legge testuale “L’educatore professionale programma, gestisce e verifica interventi educativi mirati al recupero e allo sviluppo delle potenzialità dei soggetti in difficoltà per il raggiungimento di livelli sempre più avanzati di autonomia”. Bene, a me pare evidente che nel mirino del nuovo, arrembante spirito “modernizzatore” dei servizi, quello più devoto alla cassa (e alla panza del paese) che alla qualità dell’offerta al cittadino, sia finito proprio il verbo “programmare” ovvero il pensiero iniziale dell’azione educativa, senza il quale si rischia di perdere la consapevolezza dell’intero, conseguente percorso operativo. La pedagogia, disciplina di riferimento vitale per chi fa il nostro mestiere, d’altra parte non può esistere senza progettazione. Alain Goussot la intendeva come scienza delle mediazioni e delle differenze e dunque pedagogia dell’incontro, dello sviluppo e dell’inclusione … E lui stesso che ha dedicato gran parte della sua vita accademica alla difesa di una definizione alta del mestiere dell’educatore, negli ultimi anni si lamentava spesso del fatto che tale nobile disciplina venisse calpestata e umiliata di fronte alla necessità di una riorganizzazione “dimagrante” dei servizi, sociali, sanitari e scolastici. “Sempre di più, infatti, si assiste a una marginalizzazione della pedagogia che significa azione e pensiero insieme, rispetto alla clinica e alla tecnica didattica. La didattica viva, intesa come processo vivo, viene sostituita dal didatticismo, cioè da procedure che diventano finalità in sé e per sé”, queste le sue parole, estrapolate da un’intervista pubblicata sulla rivista “Appunti” qualche tempo prima della sua morte. Dove tra l’altro aggiungeva: “sapere che alla base di ogni azione educativa e di ogni processo di insegnamento/apprendimento vi sono teorie e visioni dei rapporti umani e quindi della società mi sembra fondamentale e anche un antidoto potente per la presa di coscienza permanente dell’educatore che agisce come un tecnico di un sapere pratico che è in grado di pensare”. Abbiamo lavorato insieme io e Alain. E anche litigato, pensato, discusso, elaborato, sbagliato, in tempi in cui si poteva ancora farlo. Lo strumento operativo che rende esecutivo il nostro pensiero progettuale, l’equivalente della pialla per un falegname o del metro per un geometra, la relazione, per essere costruita e consolidata, richiede tempi e ritmi che la società dei tweet e della politica cliccata non permette e tende dunque a ostacolare. E se agli educatori togli la relazione, li fai diventare né più né meno che dei controllori sociali, degli attuatori di misure decise altrove, in “pensatoi” che nulla hanno a che spartire con la stesura e la realizzazione di progetti educativi inclusivi. Pensate solo a quanto tempo e pazienza servano per creare una relazione, mi riferisco soprattutto agli operatori dell’accoglienza, con persone che non parlano la nostra lingua, che nel corso del loro viaggio sono state imbrogliate, pestate, violentate e per cui il dare fiducia ha sempre significato nient’altro che cacciarsi dentro trappole mostruose. Da educatori a piantoni: eccolo il nostro percorso “evolutivo”, da un mestiere a un altro, con profitto e gaudio per chi da tempo l’ha pianificato e organizzato. Il processo di snaturamento delle nostre professioni, ripeto, non comincia con il decreto Minniti, anche se potrebbe trovare proprio in questa cornice la sua definitiva consacrazione. Allora, concludendo, mi vien da dire che oggi più di ieri non sia poi così difficile cogliere la valenza politica dell’agire educativo, non farlo significa accettare che venga ridotto a mero tecnicismo, a semplice esecutività, proprio ciò che si propongono di fare dispositivi come la legge Minniti. In un’epoca in cui si brucia ogni cosa ancor prima d’averla accesa, in cui dominano velocità d’azione e assenza di pensiero, il nostro più che un lavoro fuori tempo è un lavoro contro il tempo, contro questo tempo. Il nostro mestiere non può dunque che muoversi contro la logica neoliberista e del dominio della finanza perché è il mestiere che tutela e difende i diritti, ciò che non si procura di fare il profitto. E tra tutti i diritti, dopo essersi assicurati che tutti possano godere di quelli che garantiscono le condizioni minime necessarie per un’esistenza decorosa (casa scuola salute lavoro), a nessuno deve essere negato quello di voler migliorare la propria condizione di vita, di emanciparsi, di ambire ad altro. Il nostro lavoro è anche e soprattutto uno strumento a disposizione di chi voglia provare a trasformare in realtà questo desiderio. Altrimenti, accecati unicamente dalla necessità di tirar su una barriera difensiva dietro l’altra, sarà ormai troppo tardi il giorno in cui finalmente finiremo per capire che i muri non servono ad altro che a imprigionare chi li costruisce.

Paolo Coceancig, educatore

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